martedì 29 giugno 2010
Milano, la seconda generazione
La strana storia di due imprenditori nella capitale lombarda.
Molto amici di Vittorio Mangano, lo «stalliere».
Molto vicini a Marcello Dell'Utri.
di Gianni Barbacetto
Era un uomo metodico, puntuale fino all’ossessione. Maurizio Pierro, consulente finanziario, usciva dalla sua bella villa appena fuori Varese ogni mattina alle 7, imboccava l’autostrada dei Laghi, arrivava a Milano, si sedeva alla scrivania nel suo ufficio in zona Fiera, due interi piani in una palazzina elegante, cinquanta dipendenti ai suoi ordini. Ogni sera, alle 18.45 in punto, usciva, si buttava nel traffico dei viali che portano all’autostrada, alle 19 con il cellulare dall’auto avvisava la moglie («Sto arrivando»), attorno alle 20 rientrava a casa.
Vittorio Mangano, in barella e sorvegliato dalla polizia, depone al processo
contro Marcello Dell’Utri a Palermo
La sera di martedì 11 febbraio 1997, a casa lo aspettavano la moglie, i due figli di 18 e 20 anni, i suoceri e una torta con le candeline. Era il suo cinquantaseiesimo compleanno. Puntuale come sempre, Maurizio Pierro lasciò il suo studio alle 18.45. Ma non chiamò la moglie, alle 19, per dirle «sto arrivando». Lo trovarono nella notte in via Gattamelata, a meno di un chilometro dal suo ufficio. Era seduto nella sua auto, al volante, rivolto verso destra, come se stesse parlando con qualcuno seduto al suo fianco. Aveva in corpo quattro proiettili calibro 7.65, sparati da molto vicino: un colpo in mezzo agli occhi, un colpo al cuore, un colpo in mezzo al petto; il quarto colpo, dopo avergli sfiorato lo stomaco, si era conficcato nella portiera della sua monovolume giapponese. Il portafoglio era al suo posto, nella tasca della giacca, il computer portatile sul sedile posteriore.
Con chi aveva appuntamento, Maurizio Pierro, quella sera in via Gattamelata? Chi fu il suo ultimo interlocutore, seduto accanto a lui in auto?
Pierro era nato a Tripoli ed era diventato un uomo di successo. Ragioniere, guadagnava più di un commercialista, giro d’affari miliardario, presenza in una miriade di società. Tra i suoi clienti vi era anche la Chanel. Splendida villa in Sardegna, grande passione per il golf, nutrito parco auto, in cui spiccava una bella Porsche. Per la sua società principale, la Selma, aveva scelto un nome furbo: esiste infatti una Selma Leasing legata nientemeno che a Mediobanca. Pierro invece si era legato alla finanza d’assalto, tanto da restare invischiato in una storia da anni Ottanta, il crac di una società che raccoglieva risparmi e piccoli capitali promettendo alti rendimenti, aveva convinto 3 mila persone ed era finita con una bancarotta da 120 miliardi.
Dopo la notte di via Gattamelata, per un paio d’anni tutti si sono scordati di Maurizio Pierro e di quel colpo sparato in mezzo agli occhi, nella civilissima Milano. Il caso, irrisolto, dell’uomo che non arrivò puntuale alla sua ultima festa di compleanno è tornato d’attualità nella primavera 1999. I fascicoli di quell’omicidio senza colpevole sono stati ripescati dagli archivi e sono arrivati sulle scrivanie dei magistrati antimafia di Milano: Pierro infatti era consulente finanziario anche di una galassia di società che facevano capo a due imprenditori, Natale Sartori e Antonino Currò, arrestati martedì 9 marzo 1999 a Milano e imputati di rapporti mafiosi insieme a un più noto imprenditore e politico che li conosceva bene: Marcello Dell’Utri.
I magistrati di Palermo Antonio Ingroia, Domenico Gozzo, Mauro Terranova e Umberto De Giglio nel marzo 1999 chiedono per Dell’Utri addirittura l’arresto. Accusa: aver tentato di convincere un paio di “pentiti”, grazie a generose offerte di denaro, a testimoniare a suo favore. I due, Cosimo Cirfeta e Giuseppe Chiofalo, avrebbero dovut
o raccontare di essere stati avvicinati da altri collaboratori di giustizia, che li volevano spingere ad aggiungersi agli accusatori di Dell’Utri, inventandosi falsi addebiti a suo carico. Se l’operazione fosse andata in porto, l’effetto sarebbe stato dirompente: sarebbe crollata la credibilità di tutti i testimoni anti-Dell’Utri, sarebbe passata l’ipotesi di un complotto, di un accordo tra “pentiti” ai danni del collaboratore di Berlusconi.
I magistrati di Palermo e gli agenti della Dia scoprono il piano. Gli agenti della Direzione investigativa antimafia filmano addirittura alcuni incontri tra Dell’Utri e Chiofalo, uno dei due falsi pentiti. Questi poi racconta: «Dell’Utri mi disse: “Confermi le accuse di Cirfeta e io farò ricco lei e la sua famiglia, avrà per sempre la riconoscenza mia, del dottor Berlusconi e quella di tutte le persone che ci vogliono bene”». Il Parlamento, malgrado avesse ricevuto un’imponente documentazione dei fatti, respingerà la richiesta d’arresto.
Ma c’è una parte tutta milanese di questa indagine, passata in secondo piano a causa del turbine di polemiche seguite alla richiesta d’arresto per Dell’Utri. È l’indagine che ha messo a fuoco le attività di Sartori e Currò. Quasi tutta l’attenzione è stata catturata, per forza di cose, dal braccio destro di Silvio Berlusconi, ieri presidente di Publitalia, oggi deputato di Forza Italia, accusato dalla procura palermitana di voler comprare una pattuglia di «pentiti» al fine di affondare l’inchiesta sulle sue relazioni pericolose con Cosa nostra. Ma le indagini del sostituto procuratore di Milano Maurizio Romanelli e della Dia hanno scoperto ben altro: gli affari, legali e illegali, di un gruppo di persone che secondo gli investigatori sono i nuovi colletti bianchi di Cosa nostra a Milano, i manager in giacca e cravatta della mafia siciliana. In rapporto diretto con figli e nipoti di due vecchi boss, Gerlando Alberti e Vittorio Mangano. Insomma: Cosa nostra, seconda generazione.
Un quarto di secolo è passato da quando i due comparvero sulla scena: il primo, Gerlando Alberti, con fragore: il più grande raffinatore di eroina in Sicilia in tempi in cui si pensava che gli stupefacenti fossero un affare dei marsigliesi; il secondo, Mangano, in punta di piedi e inosservato: devoto “stalliere” nella villa di un costruttore emergente che era l’essenza della milanesità.
Nella Milano delle grandi trasformazioni finanziarie, dei grandi giochi per costruire i nuovi colossi bancari, assicurativi, delle telecomunicazioni, nella città dei soldi - danée e piccioli insieme - si sono rese visibili altre trasformazioni, in un settore più piccolo ma non meno vivace. Quello della finanza “grigia”.
«Il consorzio Cisa ha come missione il coordinamento armonico degli associati, fondendoli in un Gruppo omogeneo ed organizzato, fornitore di Risorse e di servizi a terzi, teso costantemente al raggiungimento di sempre nuovi obiettivi di Progresso e di Qualità, al fine di offrire ai propri Clienti elevati livelli di servizio, ottenendo soprattutto la loro primaria soddisfazione, per un reciproco e durevole vantaggio economico. Il Cisa è una Impresa di servizi al servizio delle Imprese». Firmato: «Il Presidente, Natale Sartori».
All’americana, la missione, l’obiettivo del Cisa, con tutte le sue maiuscole, è incorniciata in un quadretto nella sede dell’azienda, in via Ripamonti a Milano. Il Cisa è la capogruppo di una rete di società e cooperative che offrono servizi alle imprese: soprattutto pulizie, facchinaggio, trasporti. Terziario flessibile, molto flessibile: come numero di dipendenti (da 800 a 2 mila), come numero di aziende (nove sono le cooperative consorziate al Cisa, ma le imprese che ruotano attorno alla galassia di Sartori e del suo socio Currò sono molte di più), come rapporto di lavoro (chi è impiegato nelle cooperative del gruppo formalmente non è dipendente, ma socio).
Certo è che il giro d’affari, per Sartori e Currò, è miliardario. Forniscono servizi a imprese di primo piano come la Esselunga supermercati e la Bartolini trasporti. Un bel risultato, per due messinesi arrivati a Milano nei primi anni Ottanta e che hanno cominciato da zero (una vecchia relazione di polizia li segnala come occupanti abusivi di appartamenti dell’Istituto Case Popolari di Milano). In una decina d’anni sono diventati imprenditori di successo, hanno uffici ben arredati, begli appartamenti, auto di grossa cilindrata. Sartori possiede una splendida villa in Sardegna, a San Teodoro.
«Ci hanno preso di mira. Solo perché siamo siciliani, siamo mafiosi», spiega, appena un po’ imbarazzata, Provvidenza (detta Enza) Giargiana, una signora quarantenne, bionda, moglie di Sartori. «Volevano rompere le scatole a Dell’Utri, così sono venuti a romperle anche a noi, perché lo conosciamo, perché lavoriamo per la società di Dell’Utri, Publitalia. Sì, forniamo il servizio di pulizia negli uffici di Publitalia, come lo forniamo a tante altre aziende. Tutte private, s’intende, non lavoriamo con gli enti pubblici», si affretta a puntualizzare mentre attorno trillano i telefoni e gli impiegati si danno da fare. «Lo hanno arrestato, mio marito, ma noi dobbiamo andare avanti a lavorare: abbiamo nove cooperative consorziate, 800 dipendenti, e alla fine del mese dobbiamo dare uno stipendio a tutti».
Ma che rapporti, privati e d’affari, ha Sartori con la famiglia Mangano? Alla parola «Mangano» Enza Giargiana smette di parlare, cerca con gli occhi gli occhi di un collaboratore dai modi più bruschi. L’incontro è finito.
Mangano? Vittorio Mangano è ormai noto alle cronache come “lo stalliere” o “il fattore” di Berlusconi, perché nel 1974 abitò nella villa di Arcore del Cavaliere. In realtà è un boss di Cosa nostra inviato negli anni Settanta a Milano con l’incarico di tenere i contatti con gli imprenditori del Nord; poi fu reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, una delle più importanti di Palermo; infine fu arrestato e recluso nel carcere di Pianosa. È del febbraio 1980 la famosa telefonata tra Mangano e Dell’Utri in cui i due parlano di «cavalli» da «consegnare in albergo»: Paolo Borsellino, nella sua ultima intervista prima di essere ucciso, si disse convinto che il termine «cavalli» era riferito al traffico di stupefacenti e così fu accettato dal tribunale di Palermo, in una sentenza diventata per Mangano ormai definitiva.
Il rapporto tra i Mangano e il gruppo di Sartori è strettissimo. La moglie di Mangano, quando viene a Milano, dove vivono anche le sue figlie, è ospitata non da queste ma dalla moglie di Sartori, nella bella casa di Caleppio di Settala alla periferia della città. Delle tre figlie di Mangano, due, Cinzia (30 anni) e Loredana detta Lory (33 anni), si sono trasferite a Milano e vivono in una palazzina a tre piani nel verde, a Peschiera Borromeo, ai confini est di Milano. Sono state immediatamente assunte alla Ecosea, una delle società di Sartori (La terza figlia di Mangano, nata nel 1975, è stata chiamata Marina, ha raccontato il padre, proprio come la figlia di Berlusconi e in onore di un datore di lavoro tanto squisito).
Daniele Formisano (25 anni), nipote di Vittorio Mangano, è anch’e gli arrivato a Milano nel 1997 ed è subito stato assunto dal gruppo. «Bi sognerebbe parlargli per motivi di lavoro», dice Sartori a un suo collaboratore, «ma con rispetto, perché è il cugino di Loredana»: i rapporti di parentela, se si tratta di Mangano, valgono più dell’età, dell’esperienza, della professionalità. Il «rispetto», in questo caso, si trasforma in uno stipendio di 3 milioni al mese. Poi Formisano, da vero «figlio d’arte», arrotonda con altri affarucci. Nel febbraio 1998, per esempio, dimostra di avere stoffa e buoni contatti mettendo in piedi un traffico di 300 chili di marjuana di ottima qualità, trattando alla pari con fornitori albanesi. È in contatto con Maniola Prifti, un’albanese che l’11 luglio 1998 è stata arrestata nell’operazione “Africa”.
Che cosa fanno i nostri colletti bianchi di Cosa Nostra? Innanzitutto affari, con le cooperative di Sartori e con i mille traffici (molti con i Paesi est-europei) di Currò. Ma non solo: si danno da fare per tirar fuori di galera il loro boss di riferimento, Vittorio Mangano; danno supporto a un mafioso latitante, Enrico Di Grusa, che ha sposato la figlia di Mangano, Lory; organizzano un’incredibile rete di rapporti con alti ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di finanza.
Per migliorare la situazione carceraria di Mangano s’incontrano con Dell’Utri, che vedono più volte a Milano, alla presenza di Di Grusa e di un altro “figlio d’arte”, Vincenzo La Piana, marito di Maria Alberti (la nipote del boss Gerlando Alberti) e dunque nipote acquisito del mitico U Paccaré, che cascò dalle nuvole quando gli chiesero della mafia e rispose: «E che è? Una marca di formaggi?».
La Piana, che alla fine degli anni Settanta era uno degli addetti alla raffineria d’eroina di Trabia (una delle più grandi d’Europa, capace di produrre miliardi al giorno), nel 1997 comincia a collaborare con i magistrati e nei mesi scorsi ha raccontato a Romanelli anche gli incontri a cui è stato presente tra Dell’Utri e i colletti bianchi milanesi.
Il primo incontro avvenne nel 1995 al ristorante “Al Timeout 4” di via Benaco. Dell’Utri non mangiò, si fermò soltanto una ventina di minuti, il tempo di un aperitivo, e s’informò sulle mosse già compiute per «far volare la quaglia», cioè per ottenere il trasferimento di Mangano da Pianosa. Concluse: «Datemi qualche giorno di tempo, ci teniamo in contatto».
Promessa mantenuta: due giorni dopo, nuovo incontro al ristorante “Da Luigi” in via Marcona, buon pesce e frutti di mare. Lì Dell’Utri assicurò che «si stava interessando non solo per ottenere il trasferimento di Vittorio Mangano, ma addirittura per ottenere la sua scarcerazione». Ma attenti, disse ai suoi commensali: «Il Cavaliere sta nelle acque sporche e brutte, ci dobbiamo tenere abbottonati».
Poco dopo, l’8 novembre 1995, Mangano uscì da Pianosa e fu ricoverato nel centro clinico di Pisa. Missione compiuta.
Ma Sartori incontra Dell’Utri anche altre volte. L’ultima, il 12 ottobre 1998, nel suo ufficio di via Senato 14. «Sono stato là e gli ho spiegato», racconta poi Sartori parlando al telefono (intercettato dalla Dia) con il socio Currò e il dipendente (da trattare con «rispetto») Daniele Formisano. «La parola che mi ha detto lui è: ma mi sembra impossibile, però verifico e poi le faccio sapere. (...) Son tutte chiacchiere, la gente chiacchiera».
Che cosa ha «spiegato» Sartori a Dell’Utri? Di che cosa aveva paura? Che «verifica» si è impegnato a fare l’ex presidente di Publitalia oggi deputato di Forza Italia? Sartori aveva mangiato la foglia: aveva ormai forti sospetti che qualcuno del giro (Vincenzo La Piana: era lui, il “Giu da”) stava spifferando tutto alla polizia.
L’incontro precedente, quello più cinematografico, era avvenuto in un capannone di Rozzano, dove Di Grusa si era recato con La Piana e aveva trovato Sartori e Currò già in compagnia di Dell’Utri. Argomento discusso, secondo La Piana, il finanziamento di un’importazione di cocaina dalla Colombia: 100 chili, 25 milioni al chilo, pagamento metà alla consegna, metà a 30 giorni. Erano dunque necessari 1 miliardo e 2 o 300 milioni. La Piana ammette però di essere salito nell’ufficio dove si è svolta la trattativa con Dell’Utri soltanto a discorsi conclusi, per il caffè e i convenevoli finali; della richiesta di finanziamento a Dell’Utri e della sua disponibilità a concederlo ha saputo soltanto in seguito, dal racconto di Enrico Di Grusa.
«Io alla fine», racconta La Piana, «feci la battuta: “Dottore mi scusi, capisco che lei ci tiene più di me, ma ce lo portiamo a casa o no?”, riferito a Vittorio Mangano. E Dell’Utri rispose: “Ci stiamo pensando”». Poi dell’affare della cocaina non si fece più niente, perché alcune difficoltà e alcuni arresti consigliarono ai protagonisti di sospendere l’operazione. Ma i colletti bianchi continuarono il loro lavoro “pulito”.
Vincenzo La Piana, da buon nipote, periodicamente va a visitare in carcere il vecchio Gerlando Alberti. Lo tiene informato su ciò che succede fuori, gli chiede indicazioni e segue i suoi saggi consigli. Ebbene: Sartori e Currò, confessa il boss al nipote, «sono amici buoni e sono tenuti stretti». Cioè, interpretano i magistrati, «pochi sono a conoscenza dei loro nomi o li conoscono personalmente».
All’origine della loro carriera i due sono probabilmente coinvolti in traffici di droga, tanto che già nel 1993 l’uomo d’onore Rosario Spatola, diventato collaboratore di giustizia, aveva definito Sartori «un trafficante d’eroina»; e nel 1994 un altro siciliano fattosi “pentito”, Luigi Sparacio, aveva dichiarato che Currò era «pregiudicato messinese trafficante di stupefacenti su Milano». Ma con il tempo le attività legali avevano preso il sopravvento. Il business innanzi tutto. Competition is competition. L’e lenco delle società controllate da Sartori e Currò (in alcuni casi con la presenza anche di Enrico Di Grusa) è lungo e intricato. Oltre alla capogruppo Cisa, vi è una lunga catena di cooperative e società di cui è difficile seguire le continue metamorfosi: Mistral, Euroappalti, Ucfp, Coas, Polysystem, Polyservice, Meridiana, Smile, Euras, Finproget, Cgs, Full Time, Italsipi, Ecosea, Italgest, Bolero, Delta...
E poiché gli affari sono affari, i colletti bianchi non disdegnano di avere rapporti anche con i “colleghi” di altre holding: così Sartori e Currò sono in contatto con Pasquale Latella, uomo della ’Ndrangheta di Reggio Calabria, che è socio nella Italsipi, poi trasformata in Ecosea.
Natale Sartori, cinquantenne, è il più autorevole del gruppo. Capelli chiari ondulati, occhi chiari, sempre elegante, porta occhiali da vista Cartier e al polso un vistoso Rolex Submarine d’oro. La sua famiglia è tanto “vicina” a Mangano da andarlo spesso a trovare a Palermo, prima del suo ultimo arresto. Secondo una testimonianza, i Sartori e i Mangano hanno festeggiato insieme il Capodanno 1995 nella villa siciliana di Mangano, a Carini.
Antonino Currò è più “zanza”. Continua fino all’ultimo a dedicarsi a mille traffici. Tra questi, la produzione di jeans nella ex Iugoslavia («Ci costano più o meno 5 mila lire l’uno», dice al telefono), poi importati e venduti in Italia con marchio Levi’s («Ogni jeans viene venduto a 50 mila»). Tarocca, cioè realizza con marchi contraffatti, anche giubbotti Levi’s («Fatti bene, adesso va forte il nero»). Nel suo capannone di Rozzano, ora posto sotto sequestro, sono depositati perfino scatoloni contenenti lampadari. Currò, del resto, si è costruito una rete di relazioni d’affari in Serbia, Ungheria, Polonia, Bulgaria, dove periodicamente si reca.
Gli affari dei nuovi siciliani a Milano sono molteplici e numerosi sono i loro luoghi d’incontro. In viale Lucania 19, vicino a un’ottima salumeria-gastronomia, aveva sede una ditta in cui erano in esposizione batterie da cucina; era controllata da Enrico Di Grusa ed era, racconta La Piana, «luogo di ritrovo di alcuni palermitani a Milano». Di Grusa, Sartori e Currò a pranzo vanno spesso o al “Timeout” di via Benaco (dove hanno incontrato anche Dell’Utri), o in un bar vicino, in via Bessarione. Oggi l’insegna gialla dice: «Antica Cafeteria», sulla lavagnetta all’ingresso è scritto: «Primo, secondo e contorno, 11 mila lire» e sulla parete di fondo è incollata una struggente gigantografia di New York al tramonto. La gestione, dice la signora gentile al banco, è cambiata (chissà?) dal Natale 1999. Ma il bar di via Bessarione, a un passo da piazzale Corvetto e dall’imbocco dell’Autosole, resta un luogo storico per Cosa nostra a Milano: aperto tanti anni fa con i soldi di Gerlando Alberti e gestito per lungo tempo da Vincenzo Citarda e Lia Stassi, vecchie mani di Cosa nostra a Milano.
L’aspetto forse più incredibile di tutta questa storia è la squadretta di alti ufficiali che i siciliani avevano al loro servizio. Un colonnello dei Carabinieri, Andrea Benedetti Michelangeli, era a disposizione del gruppo praticamente a tempo pieno e utilizzava le strutture periferiche dell’Arma per procurare contatti e clienti al gruppo, mobilitava i marescialli sul territorio per portare a casa nuovi appalti. In cambio, riceveva uno stipendio mensile. Quando si sente dire dall’uomo incaricato da Sartori delle “pubbliche relazioni” che «bisognerebbe un attimino rivedere quel discor so nostro», Benedetti Michelangeli si inalbera: vuole mantenere il suo fisso mensile, anche impegnandosi a non chiedere aumenti e a non pretendere provvigioni da grossi affari. «Quando ha bisogno di un passaporto, di un rinnovo di porto d’armi, di un cazzo cinese, eh, dove vanno?», grida il colonnello al telefono. «Digli che l’aumento Istat non mi interessa, eh, però cazzo, un minimo così, anche per tutte le altre esigenze che si possono venire a creare, tipo informazioni sulle persone. (...) Tutto si può fare se c’è un minimo di comprensione, io parlo di fisso, eh. (...) Anche se dovessi ottenere, non so, 2 miliardi per una cosa, gestiteveli, non mi interessa. (...) Se poi lui ha bisogno di qualche altra cosa, a livello di informative eccetera, sono a dispositivo, io».
Benedetti Michelangeli la spunta e mantiene il suo secondo stipendio. Ma legati al gruppo restano anche il colonnello delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, il colonnello Guglielmo Petrantoni, sua sorella Angela Petrantoni, in servizio al palazzo di Giustizia di Milano.
I colletti bianchi cadono nel panico una sola volta, nell’ottobre 1998, quando una verifica fiscale della Guardia di finanza, casuale, rischia di scoprire i segreti del gruppo. Nei giorni della verifica i colloqui telefonici dei siciliani si fanno drammatici. Sartori: «Vediamo se riusciamo a fermarli. (...) Ecco, se possiamo chiuderla lì, sennò diventa un casino, diventa. (...) Io c’ho un’ultima maniglia, eh, eh, non posso spararla ora, devo spararla ora, devo spararla alla fine, devo spararla per forza quando arrivano a noi, alla Cisa».
Allora scende in campo il colonnello Adinolfi, che manda Sartori da un ex collega, Michele Leggiero, che ha lasciato la Guardia di finanza e ha aperto uno studio di commercialista a Monza. Miracolosamente i conti tornano in ordine. Tutto in una notte. Un collaboratore il 30 novembre telefona a Sartori: «Minchia che nottata... a preparare tutti i documenti, Natale, tutte le lettere, tutte le contestazioni, tutti i giustificativi delle ore fatte da Full Time...». La Guardia di finanza contesta al gruppo, è vero, false fatture per un miliardo e mezzo, ma i siciliani sono contenti, festeggiano lo scampato pericolo: c’era ben di peggio da scoprire...
Il lato più oscuro di tutta questa faccenda è la pista “stragista” che qualcuno ha indicato. La bomba mafiosa scoppiata la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 al Padiglione di arte contemporanea di via Palestro a Milano resta la più misteriosa tra le bombe del ’93, quella di cui meno si sa: chi sono i basisti, chi ha fornito i “materiali” necessari, chi sono gli esecutori?
È il Giornale, giovedì 11 marzo, a sparare in un titolone a pagina 2: «Fra le accuse spuntano le stragi del ’93». L’articolo spiega che gli imprenditori messinesi Currò e Sartori sarebbero ritenuti «vicini agli ambienti in cui sarebbero maturati quegli attentati. Currò, in particolare, è zio di Rosa Currò, al cui cellulare nel 1993 sarebbero arrivate chiamate provenienti dall’utenza telefonica di Antonio Scarano, oggi collaboratore di giustizia, condannato a Firenze proprio per gli attentati».
Pista interessante, ma tutta da verificare. Anzi, gli investigatori milanesi invitano alla cautela: non è affatto dimostrato il rapporto tra Rosa Currò e Antonino Currò.
Il secondo elemento della pista “stragista” parte da un night club milanese, il Top Town. Durante un controllo di polizia, nel night furono trovati sia Currò, sia Elio Boi, il proprietario del ristorante milanese “Gigi il cacciatore” dove furono arrestati i fratelli Graviano, boss di Cosa nostra ritenuti gli organizzatori delle stragi del ’93. Anche questa è una pista interessante, ma non ci sono le prove che i Boi e Currò fossero insieme al Top Town, né che Elio fosse non solo il ristoratore, ma anche il complice dei Graviano.
Restano gli affari, sporchi e puliti, del gruppo dei siciliani a Milano, Cosa nostra seconda generazione. Girandola di sigle e di aziende, appuntamenti in capannoni di periferia, cene al ristorante, incontri al bar di fiducia o in ufficio. Sembra di essere tornati ai bei tempi di via Larga, negli anni Settanta, quando in pieno centro di Milano il siciliano Ugo Martello detto Tanino fu mandato da Cosa nostra ad aprire una succursale al Nord, nella capitale dei piccioli. L’ufficio di via Larga divenne un punto di riferimento, fu frequentato da personaggi come Mimmo Teresi e Tanino Cinà. Ci passò perfino Stefano Bontate in persona, allora numero uno di Cosa nostra, quella volta che venne a Milano per parlare d’affari con un siciliano trapiantato a Milano: Marcello Dell’Utri.
Quella volta, racconta il boss Francesco Di Carlo, Bontate incontrò Dell’Utri, che gli presentò Berlusconi. Bontate esortò l’imprenditore «a investire in Sicilia», ma Silvio gli rispose che «già temeva i siciliani che al Nord non lo lasciavano tranquillo», aveva paura di essere sequestrato. Allora Bontate rispose: «Non avrà più nulla da temere, vicino a lei c’è già Marcello Dell’Utri, e comunque le manderò uno dei miei in modo da non farle avere più alcun problema con i siciliani». Poco dopo, a Milano arrivò Vittorio Mangano, ufficialmente a lisciare la criniera dei cavalli di Arcore.
Vent’anni dopo, sono gli “uomini nuovi” di Mangano, «amici buoni e tenuti stretti», a essere attivi su piazza. Cosa nostra, inabissata a Palermo dopo la sconfitta della furia corleonese, a Milano è alla seconda generazione.
Di nuovo, una storia italiana
Guida alla lettura della sentenza di Palermo
che ha condannato Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa
di Gianni Barbacetto
"Senza soldi, non se ne canta Messa"
Marcello Dell’Utri, 14 febbraio 1980
Marcello Dell’Utri ha silenziosamente attraversato le vicende italiane degli ultimi decenni. È stato alto dirigente di uno dei gruppi economici che hanno fatto la storia del Paese. È stato il costruttore di una nuova formazione politica divenuta immediatamente il primo partito nazionale. È stato, infine, imputato di mafia: per dieci lunghi anni la procura della Repubblica di Palermo lo ha indagato, lo ha mandato sotto processo, ha infine chiesto la sua condanna a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Sabato 11 dicembre 2004 i giudici della seconda sezione del Tribunale di Palermo (Leonardo Guarnotta presidente, Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco a latere) hanno pronunciato la sentenza di primo grado: condanna a nove anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici.
I fatti che hanno portato alla richiesta di condanna sono contenuti nel documento che viene presentato, pressoché integralmente, in questo volume: la monumentale requisitoria dei pubblici ministeri Domenico Gozzo e Antonio Ingroia, pronunciata davanti al Tribunale in 16 udienze, dal 5 aprile all’8 giugno 2004, dopo un lunghissimo dibattimento a cui ha dato un importante contributo la professionalità dell’avvocato di parte civile del Comune di Palermo, Ennio Tinaglia.
È il racconto di una lunga storia prima imprenditoriale e poi anche politica, sempre al fianco di Silvio Berlusconi. Ma una storia che si è sviluppata, secondo l’accusa, con la presenza costante e determinante della più potente organizzazione criminale italiana, Cosa nostra.
Questa presenza ha dunque condizionato, in ultima analisi, alcuni passaggi cruciali delle vicende di Silvio Berlusconi, della Fininvest, di Forza Italia. Per questo, anche al di là degli esiti processuali, che potranno anche cambiare nei successivi gradi di giudizio, vale la pena di rendere accessibile e disponibile questa requisitoria. Perché qualunque lettore possa conoscere una ricostruzione dei fatti che i giornali e le tv non hanno mai compiutamente raccontato.
1.
Marcello Dell’Utri nasce a Palermo l’11 settembre 1941. Cresce e studia nella città siciliana, trasferendosi a Milano nei primi anni Sessanta per frequentare l’università. Qui incontra il giovane Silvio Berlusconi, di cinque anni più anziano di lui. Comincia a occuparsi seriamente di calcio, sogna di diventare un tecnico, un arbitro o un allenatore. Nel 1965 va a vivere a Roma, impiegato per un paio d’anni come direttore del centro sportivo Elis, una struttura dell’Opus Dei.
Torna a Palermo nel 1967, per stare vicino al padre. La passione per lo sport lo porta a fondare e dirigere l’Athletic Club Bacigalupo, che in pochi anni diventa un crocevia della “Palermo bene”, ma anche della Palermo mafiosa. Nel 1970 il padre, che lo vuole “sistemato” in banca, lo fa assumere alla Cassa di risparmio delle province siciliane, la Sicilcassa. Dapprima lavora a Catania, poi alla filiale di Belmonte Mezzagno, a metà strada tra Palermo e Corleone, infine al Credito agrario di Palermo.
La svolta nella sua vita arriva nel marzo del 1974: chiamato da Berlusconi, vecchio compagno d’università che sta facendo fortuna, lascia subito la Sicilia e si trasferisce a Milano, come segretario particolare del giovane imprenditore. Inizia una carriera e una vicenda professionale e politica che arriva fino a oggi. Sempre scandita, secondo i magistrati palermitani, da contatti con uomini di Cosa nostra.
È presso il club calcistico Bacigalupo che si registrano i primi rapporti certi tra Dell’Utri ed esponenti mafiosi. In quegli anni egli frequenta Gaetano Cinà detto Tanino, esponente della famiglia di Malaspina e coimputato di Dell’Utri (condannato a sette anni per associazione mafiosa); e Vittorio Mangano, che diverrà capo della famiglia di Porta Nuova. Cinà, figura rimasta silenziosa e in disparte nei lunghi anni delle indagini e del dibattimento, è l’uomo chiave di questa storia: personaggio vicino a Stefano Bontate, negli anni Settanta capo indiscusso di Cosa nostra, è l’anello di congiunzione tra Dell’Utri e l’organizzazione criminale, il punto di riferimento costante per Dell’Utri dentro l’universo mafioso.
Tutto nasce quando Silvio Berlusconi, nella prima metà degli anni Settanta, riceve le prime minacce mafiose: gli giungono richieste di soldi e “avvertimenti” che avrebbero potuto sequestrarlo o rapire uno dei suoi figli. Erano anni in cui i sequestri di persona erano molto frequenti (103 nella sola Lombardia, tra il 1974 e il 1983). Eppure il giovane imprenditore non denuncia, non chiede protezione alle autorità, non avverte la polizia; si ricorda invece dell’amico siciliano conosciuto dieci anni prima all’università, lo chiama e lo convince a venire al Nord, al suo fianco. Dell’Utri lascia la banca e si trasferisce ad Arcore, nella villa che Berlusconi aveva comprato, con l’aiuto determinante dell’avvocato Cesare Previti, dalla marchesina Casati Stampa. Dell’Utri, dopo un consulto con Cinà, porta con sé Vittorio Mangano, che arriva a Milano pochi mesi dopo di lui e dal 1 luglio 1974 è assunto come “fattore” della villa: in realtà è l’assicurazione sulla vita e sui beni stipulata da Berlusconi, attraverso Dell’Utri, con Cosa nostra.
Così Dell’Utri consegna Berlusconi nelle mani dell’organizzazione criminale: perché questa offre sì protezione, ma poi pretende un rapporto più intenso. Suggellato da un vertice ai massimi livelli: Berlusconi nel 1974 incontra ad Arcore – con la regia di Dell’Utri e, dietro di lui, di Cinà – nientemeno che il capo di Cosa nostra, Stefano Bontate, presenti i mafiosi Mimmo Teresi e Francesco Di Carlo. Bontate, chiamato "il principe di Villagrazia", era piaciuto a Berlusconi, secondo i racconti che circolavano tra gli uomini di Cosa nostra: lo aveva trovato ben diverso da come si immaginava i boss, un uomo nient’affatto rozzo, anzi intelligente e "affascinevole", testimonia Antonino Galliano riferendo le confidenze ricevute da Cinà.
Berlusconi comincia a versare somme di denaro a Cosa nostra per la sua protezione: il denaro, a partire dalla metà degli anni Settanta, passa da Dell’Utri a Cinà e arriva a Mimmo Teresi e Stefano Bontate. Secondo un testimone diretto e ben introdotto nell’ambiente dei palermitani a Milano – il finanziere Filippo Alberto Rapisarda – Cosa nostra chiede però presto a Dell’Utri e Berlusconi un rapporto più stretto: offre denaro, proveniente dai giganteschi profitti che Cosa nostra comincia a realizzare in quegli anni grazie al traffico di eroina, da reinvestire e riciclare in business puliti.
Tra il 1975 e il 1979, in effetti, avviene una complicatissima e per niente trasparente riorganizzazione societaria del gruppo Berlusconi, che si apre con la nascita, il 21 marzo 1975, della Finanziaria d’investimento-Fininvest e prosegue poi con la moltiplicazione delle società: tre diverse Fininvest si susseguono e s’incrociano tra loro e infine compare, a controllarle, un bizantino sistema di 23 holding. In questi anni determinanti, dal 1975 fino al 1983, nelle casse del gruppo entra un fiume di miliardi di lire di cui è impossibile ricostruire la fonte. La provenienza è rimasta ignota anche dopo due poderose perizie: quella del consulente della Banca d’Italia Francesco Giuffrida, per l’accusa, e quella del docente della Bocconi Paolo Iovenitti, per la difesa.
Perfino il professor Iovenitti, che pure ha ricevuto l’incarico da Dell’Utri, è costretto ad ammettere durante il processo di Palermo che alcune delle operazioni finanziarie del gruppo Berlusconi sono inspiegabile e "potenzialmente non trasparenti". E che ha dovuto realizzare la sua consulenza senza una parte dei documenti contabili: quelli che pure erano stati ritirati da un avvocato di Berlusconi nel 1998 presso la fiduciaria Bnl “Servizio Italia” e relativi ai mandati fiduciari posti in essere dal 1975 in poi.
Secondo alcuni collaboratori di giustizia, è Stefano Bontate il socio occulto della Fininvest, che vi avrebbe investito grandi capitali. Non c’è però la prova piena del riciclaggio di denaro mafioso da parte della Fininvest (tanto è vero che, per questa accusa, le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri, dopo un’indagine a Palermo, sono state archiviate). C’è però, secondo l’accusa, una prova incompleta, ma pienamente coerente con le dichiarazioni dei testimoni, tra cui Rapisarda e Francesco Di Carlo. Lo stesso consulente Iovenitti ha ammesso anomalie finanziarie e comunque non ha fatto luce sulla provenienza di quei capitali. Bastava una consulenza che spiegasse chiaramente i flussi di denaro: invece, a trent’anni dai fatti, su quei flussi è stata stesa ancora una fitta cortina fumogena. Perché? Non certo, rispondono i magistrati dell’accusa, per coprire reati fiscali o finanziari, ormai prescritti.
Cosa nostra era ormai da tempo a Milano. La sua base era un ufficio a pochi passi dal Duomo, in via Larga, punto di riferimento per uomini come Ugo Martello, Robertino Enea, i fratelli Pippo e Alfredo Bono. Frequentavano quell’ufficio, quando passavano a Milano, anche i palermitani importanti, da Stefano Bontate a Tommaso Buscetta... Milano era la capitale degli affari. Da lì si poteva entrare in contatto con imprenditori dinamici, pieni d’idee e spregiudicati quanto basta: prima attraverso le minacce, poi magari con accordi di reciproca soddisfazione. Perché i piccioli e i danee, a Palermo come a Milano, non puzzano.
In questo clima Dell’Utri sbarca al Nord. E anche lì continua le sue frequentazioni mafiose. La sera del 24 ottobre 1976, per esempio, il boss catanese Antonino Calderone festeggia il suo compleanno a Milano, al ristorante “Le colline pistoiesi”. Sono presenti a tavola i mafiosi Gaetano e Antonino Grado, ma anche Mangano e Dell’Utri. Questi ammette la cena, spiegando però che non conosceva i commensali. I fratelli Grado, grandi trafficanti di droga, secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo erano gli stessi che un paio d’anni prima avevano progettato il rapimento del figlio di Berlusconi, Piersilvio.
2.
Nell’autunno del 1976 Vittorio Mangano appare però pubblicamente compromesso per le sue vicende criminali: era stato arrestato una prima volta il 27 dicembre 1974 e, rilasciato il 22 gennaio successivo, era stato riaccolto ad Arcore; arrestato di nuovo il 1 dicembre 1975, quando viene rimesso in libertà, sul registro del carcere segna come domicilio "via San Martino 42, Arcore", cioè casa Berlusconi. La situazione è ormai imbarazzante. Così nell’ottobre 1976 Mangano lascia l’impiego presso Arcore. Poche settimane dopo se ne va anche Dell’Utri.
Berlusconi è ormai un imprenditore che ha costruito un piccolo impero immobiliare sotto il segno del Biscione. Intuisce il danno d’immagine che gli può provocare la diffusione della notizia d’aver accolto in casa un mafioso. In più, forse teme possibili indagini di polizia. Rompe rapidamente, dunque, con la coppia Dell’Utri-Mangano. Mantiene però gli impegni presi con Bontate: continua a versare il suo “regalo” a Cosa nostra (la famiglia Pullarà sostitusce Mangano nell’esazione). E cerca nuove protezioni.
Nel gennaio 1978 si iscrive alla P2 di Licio Gelli. Sotto le ali di quel club, otterrà massicci fidi bancari anche senza adeguate garanzie; e tenterà di sviluppare alcuni affari in Sardegna in cui sono coinvolti piduisti e personaggi della criminalità organizzata romana e siciliana, tra cui Flavio Carboni, faccendiere romano nelle mani della malavita della capitale e frequentatore di mafiosi del rango di Pippo Calò, l’inviato di Cosa nostra nella capitale. Sono questi gli anni in cui la criminalità organizzata penetra dentro la massoneria e alcune logge diventano camera di compensazione tra i diversi poteri, luogo d’incontro tra politici, imprenditori e mafiosi (come lo stesso Bontate, anch’egli iscritto a una loggia massonica).
3.
E Dell’Utri? Dopo il licenziamento da parte di Berlusconi, Marcello attraversa un periodo di smarrimento. Accarezza l’idea di prendersi un anno sabbatico, di lasciare tutto per trasferirsi in Spagna, a studiare teologia presso l’università di Navarra, o presso i Gesuiti in Italia. È il solito Cinà a tirarlo fuori dai guai, preoccupato per l’amico ("Si vuole fare prete", aveva capito, sintetizzando un po’ rozzamente una crisi più complessa). Nel 1977 lo fa assumere da Filippo Alberto Rapisarda, in quegli anni a capo, a Milano, di un grande gruppo immobiliare, stimato il terzo in Italia e considerato un luogo privilegiato di passaggio dei capitali mafiosi.
Dell’Utri diventa dirigente della Bresciano, un’azienda del gruppo Rapisarda, benché egli stesso ammetta alla signora Bresciano di non sapere neanche da che parte si cominci a dirigere un’azienda. Il suo gemello, Alberto Dell’Utri, viene posto al vertice di un’altra società di Rapisarda, la Venchi Unica. Non è un’esperienza fortunata: in breve tempo, tutto il gruppo Rapisarda finisce nell’imbuto di un colossale fallimento. Marcello è incriminato a piede libero, Alberto è arrestato a Torino, Rapisarda fugge all’estero, nel Venezuela dei Caruana, grandi trafficanti di droga, e poi a Parigi (con un passaporto intestato a "Dell’Utri Alberto").
Passato da Berlusconi a Rapisarda, Dell’Utri trasferisce la sua abitazione nel lussuoso palazzetto di quest’ultimo, nella centralissima via Chiaravalle, a Milano. Ma non interrompe i vecchi rapporti. Con Vittorio Mangano, per esempio: nel 1980, in una telefonata intercettata dalla Criminalpol, Dell’Utri parla con l’amico di "affari" e di "cavalli". È la telefonata a cui fa riferimento Paolo Borsellino nella sua ultima intervista prima di essere ucciso, quando spiegherà che per "cavalli" si intendono partite di droga.
Nell’aprile dello stesso anno, Dell’Utri fa un salto a Londra, dove partecipa alla festa di matrimonio di Jimmy Fauci, mafioso siciliano che gestisce in Gran Bretagna il traffico di droga per il clan Caruana. Dell’Utri ammette: "Mi portò Cinà, non sapevo chi fosse lo sposo, mi trovavo a Londra per visitare una mostra sui vichinghi".
4.
Nel 1983 Dell’Utri lascia Rapisarda (che parla di tradimento) e ritorna al servizio di Berlusconi, il quale lo inserisce al vertice di Publitalia 80, l’azienda nata un paio d’anni prima con la mission di raccogliere pubblicità per le reti televisive del Biscione. Perché questo ritorno? E come mai, questa volta, in una posizione così importante?
Quello che approda a Publitalia è lo stesso Dell’Utri che al momento del licenziamento, nel 1976, si era sentito dire da Berlusconi di non essere in grado di dirigere un’azienda. Lo stesso che aveva apertamente ammesso i suoi limiti manageriali con la signora Bresciano. Lo stesso che, negli anni con Rapisarda, aveva aggiunto al suo curriculum professionale un’unica esperienza di rilievo: il fallimento della Bresciano. Eppure ora è posto a capo della società più delicata del gruppo, quella che fa il fatturato per tutta la Fininvest.
Per capirne le ragioni, è necessario comprendere la grave crisi attraversata da Berlusconi nei primi anni Ottanta. Nel 1981, con la pubblicazione degli elenchi degli iscritti alla loggia segreta di Licio Gelli, scoppia lo scandalo P2 e Berlusconi si ritrova di nuovo esposto ai possibili attacchi della stampa e alle possibili indagini della magistratura, anche a causa dei suoi rapporti con personaggi della P2 legati alla mafia. Quella stessa mafia che Dell’Utri gli aveva portato in casa nel 1974 e che lui aveva creduto di allontanare licenziandolo.
Non solo. Proprio in quegli anni, Cosa nostra "si era fatta sotto" di nuovo, e pesantemente, con l’imprenditore di successo ormai entrato nel business televisivo: "Gli stavano tirando il radicone", racconta il collaboratore di giustizia Angelo Siino, ossia gli avevano fatto forti richieste di denaro.
In Sicilia erano cambiati gli equilibri: Bontate era stato sconfitto e ucciso (proprio nel 1981) al culmine della guerra di mafia che lo aveva contrapposto ai corleonesi di Totò Riina; e i Pullarà, della stessa famiglia di Bontate ma alleati dei corleonesi, avevano cominciato a gestire a loro modo le relazioni con la Fininvest. Quanto a Vittorio Mangano, già fuori gioco, nel 1983 è oltretutto di nuovo arrestato, nell’ambito dell’operazione San Valentino che non solo scopre, proprio sull’asse Milano-Palermo, molti mafiosi, ma individua per la prima volta anche alcuni “colletti bianchi” della mafia al Nord.
Per Berlusconi, stretto tra scandalo P2 e nuove pretese di Cosa nostra, è un momento delicato e difficile. Superato, secondo i magistrati di Palermo, attraverso una ristrutturazione complessiva dei rapporti tra la Fininvest e la mafia, che prevede anche il ritorno di Dell’Utri al fianco di Berlusconi, ormai "vittima consapevole" di Cosa nostra.
Totò Riina, nuovo uomo forte dell’organizzazione criminale dopo l’uccisione di Bontate, eredita i contatti a suo tempo stretti da quest’ultimo e li rimodula, avviando una fase nuova nei delicati rapporti tra la Fininvest e la Sicilia. È sempre Tanino Cinà, gran padrino di Dell’Utri, a mediare anche questo cruciale passaggio, offrendo ai nuovi capi di Cosa nostra ancora una volta Dell’Utri come l’uomo che può risolvere la crisi.
Lo rivelano, dall’interno, alcuni collaboratori di giustizia che raccontano come, a metà degli anni Ottanta, all’orecchio di Riina fosse giunta l’eco della controversia tra Mangano e i Pullarà, motivata dal fatto che questi ultimi gli avevano scippato il rapporto con Berlusconi. C’era stato addirittura un acceso scontro verbale in carcere tra l’ex “stalliere” e Giovan Battista Pullarà. Il nuovo capo di Cosa nostra decide di estromettere sostanzialmente i Pullarà (anche se, per non scontentarli, lascia a loro una parte dei soldi pagati dalla Fininvest) e di utilizzare quel rapporto a beneficio dell’intera organizzazione.
Viene istituzionalizzato (sicuramente a partire almeno dal 1986) il versamento a Cosa nostra di 200 milioni di lire all’anno, ma tornando a impostare i rapporti secondo i principi dell’“impresa amica” e del “regalo”, che sarà infatti puntualmente fatto giungere ai boss anche negli anni delle stragi di mafia: certamente fino al 1993 o, secondo altri riscontri (tra cui le agende di Dell’Utri che documentano i suoi rapporti con Cinà), fino al 1995. Il “regalo” passa dalla Fininvest a Gaetano Cinà, da Cinà a Pierino Di Napoli, da Di Napoli a Raffaele Ganci, infine da Ganci a Riina, che poi provvede a ripartirlo tra i vari mandamenti di Cosa nostra “interessati”: come San Lorenzo (nel cui territorio vi è la sede palermitana delle Fininvest) e Resuttana (dove sono posizionate alcune delle antenne siciliane del gruppo).
Che i rapporti siano distesi e cordiali – ben diversi da quelli che di solito intercorrono tra estorsore e vittima di un’estrosione – è testimoniato da alcune telefonate intercettate nel 1986, come quella in cui Cinà, al telefono con Alberto Dell’Utri, gemello di Marcello, racconta delle cassate siciliane inviate per Natale da Palermo a Milano, alla sede della Fininvest: quella per Berlusconi, grandissima, pesava più di 11 chili e Cinà ci aveva fatto scrivere sopra dal pasticciere "Canale 5, in numero e in lettere".
Ma Riina non pensa solo ai soldi, bensì anche e soprattutto alla “politica”: il vecchio rapporto con Dell’Utri e Berlusconi potrebbe diventare un buon canale per arrivare a Bettino Craxi allora presidente del Consiglio, ipotizza Riina, che comincia ad accarezzare l’idea di mandare un avvertimento alla Dc per i tentennamenti dimostrati nel sostegno a Cosa nostra.
I primi anni Ottanta, quelli del ritorno di Dell’Utri al gruppo Berlusconi, sono anche gli anni in cui la Fininvest sviluppa il suo impero televisivo. Fa incetta di emittenti in tutta Italia: anche in Sicilia, dove nasce Rete Sicilia che ritrasmette i programmi di Canale 5 e che ha nel suo consiglio d’amministrazione, accanto ad Adriano Galliani, un certo Antonio Inzaranto, nominato addirittura presidente senz’altra competenza se non quella di essere cognato della nipote di Tommaso Buscetta; Trinacria tv, che trasmette Italia 1, è invece domiciliata presso la Parmafid, una fiduciaria dietro cui si muovono personaggi come Joe Monti e Antonio Virgilio, arrestati nel 1983 come “colletti bianchi” della mafia, considerati i terminali milanesi del riciclaggio di Cosa nostra (condannati in primo grado e in appello, sono poi assolti in Cassazione da Corrado Carnevale, allora chiamato “giudice ammazzasentenze”); Sicilia televisiva, infine, l’emittente che ritrasmette Retequattro, è avviata da due fratelli, i costruttori Filippo e Vincenzo Rappa, amici di Dell’Utri poi processati per mafia (il secondo sarà condannato).
La Parmafid è considerata dai magistrati palermitani lo strumento fiduciario attraverso cui Antonio Virgilio gestisce da Milano il denaro di Cosa nostra per conto di Pippo e Alfredo Bono, della famiglia di Bolognetta. Ebbene, proprio la Parmafid controlla, fino al 1994, una quota consistente delle holding che a loro volta controllano la Fininvest.
Il 28 novembre 1986 scoppia una piccola bomba contro la cancellata della sede milanese della Fininvest, in via Rovani. È la seconda: una simile era scoppiata il 26 maggio 1975. Dalle telefonate (intercettate) si capisce che Berlusconi e Fedele Confalonieri siano convinti che sia stato anche questa volta Mangano (che invece è, di nuovo, in carcere): "Una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto...", dice Berlusconi. E chiede conto di ciò al suo collaboratore, evidentemente considerato il responsabile in azienda del ramo, lo specialista in questo genere di cose. Dell’Utri non delude le attese. Due giorni dopo, il 30 novembre, telefona al capo: Mangano non c’entra, "assolutamente è proprio da escludere". Comunque non c’è da preoccuparsi, c’è "da stare tranquillissimi". E spiega: "Ho visto Tanino... che è qui a Milano". Berlusconi non chiede chi è Tanino. Evidentemente sa bene chi è Cinà e prende atto con un monosillabo: "Ah!".
La spiegazione dell’attentato arriva dall’interno di Cosa nostra. Sono i catanesi di Nitto Santapaola, questa volta, a entrare in campo a gamba tesa: attentati, messaggi telefonici, lettere minatorie. Riina è stato avvertito ed è d’accordo: lascia fare i catanesi, che potranno magari ritagliarsi una fetta del denaro pagato dalla Fininvest. A lui la pressione su Berlusconi serve però soprattutto in vista della sua strategia “politica”: lascia che creino problemi a Berlusconi per far poi risaltare le capacità di coloro che li risolvono, cioè Dell’Utri e Cinà, che possono così stringere ancor più il loro rapporto con Berlusconi, che Riina vuole utilizzare come ponte per arrivare a Craxi. Alle elezioni del 1987, infatti, per la prima volta Cosa nostra ritira il suo sostegno ai democristiani e fa affluire i suoi voti al Psi, apprezzato per il suo garantismo.
E Dell’Utri continua a fare il mediatore tra le pretese di Palermo e le possibilità di Milano. Un mestiere difficile, che necessariamente incappa in momenti di crisi. L’altalenante rapporto tra Berlusconi e Dell’Utri, infatti, sul finire degli anni Ottanta ha un altro periodo di raffreddamento. Le minacce proseguono, evidentemente perché i mafiosi non sono soddisfatti delle risposte ottenute. Il 17 febbraio 1988 Silvio Berlusconi fa al telefono (intercettato) una confessione drammatica all’amico imprenditore Renato Della Valle: "Sono messo male fisicamente. E poi c’ho tanti casini in giro, a destra, a sinistra. Ce n’ho uno abbastanza grosso, per cui devo mandar via i miei figli, che stan partendo adesso per l’estero, perché mi han fatto estorsioni... in maniera brutta. (...). Una cosa che mi è capitata altre volte, dieci anni fa, e... sono ritornati fuori. (...) Sai, siccome mi hanno detto che se, entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me e espongono il corpo in piazza del Duomo. (...) E allora son cose poco carine da sentirsi dire e allora, ho deciso, li mando in America e buona notte".
Non si sa se poi Berlusconi abbia fatto o no "la roba" che gli chiedevano "entro una certa data". Ma certamente raffredda i rapporti con Dell’Utri. Questa volta Marcello non viene licenziato, ma tenuto a distanza. Lo racconta Mariapia La Malfa, moglie di Alberto Dell’Utri, in una telefonata del luglio 1988 a Rita dalla Chiesa: "Per vent’anni Berlusconi ha sempre trascorso i capodanni con Craxi e Dell’Utri, ma da quando c’è Previti non invita più Marcello...". Secondo i magistrati palermitani, si ripete la scena degli anni Settanta: Dell’Utri ha rimesso Berlusconi nelle mani di Cosa nostra, eppure le minacce continuano, perché la mafia alza sempre la posta e questa volta vuole arrivare a Craxi.
Nel 1991, subito dopo la sua ennesima scarcerazione, Mangano cerca di riallacciare i rapporti con Dell’Utri e la Fininvest. Ma viene bloccato da Totò Cancemi, capo della sua famiglia mafiosa, che per conto di Riina in persona gli chiede di farsi da parte, in nome del "bene di tutta Cosa nostra": Riina vuol gestire lui stesso, direttamente, il rapporto con Berlusconi.
Intanto i catanesi continuano le loro pressioni. A partire dal 1990 bersagliano di minacce e attentati incendiari i magazzini Standa di Catania. La reazione è ancora una volta “privata”: nessuna denuncia e, apparentemente, nessun riscatto pagato. In realtà alcuni titolari di magazzini in franchising ammettono di avere versato la loro parte, un miliardo. Berlusconi invece nega tutto e minimizza perfino i danni subiti. Ma è Dell’Utri, secondo diversi collaboratori di giustizia, che come al solito s’incarica di risolvere, in maniera riservata, il problema: riceve a Milano un emissario delle famiglie catanesi e poi scende personalmente in Sicilia dove nell’autunno 1991 incontra, a Messina, Santapaola in persona, allora latitante.
In questo periodo, segnala l’accusa, il gruppo Berlusconi acquisisce "appalti in Sicilia senza conflitti con la locale imprenditoria mafiosa, anzi entrando in società con alcuni imprenditori che sono risultati legati a Cosa nostra": è il caso della società di costruzioni Coge, riconducibile a Paolo Berlusconi, che realizza lavori, per esempio, nell’isola di Favignana.
In questi stessi anni accade anche un fatto che, secondo l’accusa, mette bene in rilievo i metodi professionali di Dell’Utri e i suoi rapporti siciliani. Nel 1990 il dirigente di Publitalia stringe un contratto di sponsorizzazione con la squadra femminile della Pallacanestro Trapani. Lo sponsor è la Birra Messina, che s’impegna per circa 1 miliardo e mezzo di lire. Ma Dell’Utri pretende che metà della cifra versata dallo sponsor gli sia restituita, in contanti e in nero, a titolo di intermediazione. Il proprietario della squadra, Vincenzo Garraffa, si rifiuta e a quel punto Dell’Utri dapprima lo minaccia ("Ci pensi, perché abbiamo uomini e mezzi per convincerla a pagare") e poi gli manda, a fare un convincente “recupero crediti”, il boss di Cosa nostra di Trapani, Vincenzo Virga. Per questo fatto Dell’Utri è già stato condannato nel 2004 a Milano a due anni di reclusione, in primo grado, per tentata estorsione.
Anche i Graviano, boss di Brancaccio, mandanti dell’assassinio di padre Pino Puglisi e protagonisti nel 1992-93 della strategia stragista di Cosa nostra, hanno contatti con Dell’Utri. L’accusa individua rapporti tra il manager di Publitalia e tre siciliani, Giuseppe D’Agostino, Francesco Piacenti e Carmelo Barone. Il primo viene arrestato il 27 gennaio 1994 in un ristorante di Milano, Gigi il Cacciatore, insieme ai capifamiglia, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.
5.
Intanto l’Italia è arrivata a una svolta. Dopo Mani pulite, il sistema dei partiti si sgretola. Contemporaneamente, Cosa nostra in Sicilia rompe definitivamente con i suoi tradizionali referenti politici (Salvo Lima e gli andreottiani) e, dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxiprocesso di Palermo, dichiara guerra allo Stato. Inizia la stagione delle stragi: nel 1992 sono uccisi i democristiani Salvo Lima e Ignazio Salvo, considerati “traditori”, e i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’anno seguente l’attacco si trasferisce sul continente: un’autobomba tenta d’uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, poi seguono gli attentati di Firenze, Roma, Milano.
È in questo clima drammatico che Silvio Berlusconi, preoccupato per la sorte delle sue aziende rimaste senza sostegno politico, decide di "scendere in campo", di buttare nella mischia la potenza delle sue tv e di fondare Forza Italia. Ma è Dell’Utri, che fino a quel momento non si è mai occupato di politica, il primo a pensare a un impegno diretto, a spingere il suo capo in questa direzione e poi a costruire il partito, usando la struttura organizzativa di Publitalia. Non solo precede Berlusconi, ma è anche il solo dirigente del gruppo a non avere dubbi, anzi a lottare contro le cautele e le resistenze degli altri consiglieri del presidente (Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Maurizio Costanzo, Enrico Mentana...). Lo testimonia un consulente di Dell’Utri, Ezio Cartotto, ingaggiato in segreto per studiare nuove modalità d’intervento politico della Fininvest in previsione del crollo dei partiti amici.
Poi, tra il 1993 e il 1994, si consuma un drammatico contrappunto Milano-Palermo. Mentre il sistema politico implode e le stragi prostrano l’Italia, Cosa nostra, che come dice Riina ha "fatto la guerra per fare la pace", è alla ricerca di nuovi referenti politici. Anche in questo tesissimo momento, Dell’Utri ha un compito delicato: garantire ancora una volta il rapporto tra Milano e Palermo, mediare tra le richieste di Cosa nostra e le disponibilità del nascente partito di Forza Italia.
Alcuni tra i boss, dopo aver fondato il movimento Sicilia libera, si stavano avviando a sostenere una Lega del Sud, un movimento che avrebbe dovuto nascere, con appoggi massonici, dalla federazione delle diverse leghe sorte nelle regioni meridionali: avrebbe dovuto contrapporsi alla Lega Nord, ma di fatto concorrere insieme ad essa alla spartizione del Paese; e soprattutto avrebbe dovuto essere sensibile alle esigenze “politiche” di Cosa nostra. Dentro l’organizzazione criminale si svolge, allora, un’ampia consultazione, qualcosa di simile alle elezioni primarie, in cui le famiglie mafiose sono chiamate a esprimere la loro preferenza tra il progetto “sudista” e indipendentista di Sicilia libera e quello “milanese” e nazionale di Marcello Dell’Utri. Prevale quest’ultimo, giudicato più serio ed efficace.
Il capo di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, Bernardo Provenzano, si assume la responsabilità di dare il proprio appoggio al nuovo soggetto politico, a proposito del quale vi erano stati contatti con Dell’Utri: "Finalmente, si prospetta un discorso serio e che possiamo andare avanti". La lunga stagione delle stragi s’interrompe e inizia la fase dell’inabissamento di Cosa nostra.
Provenzano prende la sua decisione perché ha avuto adeguate garanzie di risoluzione dei problemi dell’organizzazione criminale: "Pressione giudiziaria, sequestro dei beni, collaboratori di giustizia, regime carcerario duro". Si stringe così un nuovo patto che prevede, da una parte, "garanzie politiche" (Provenzano promette che "entro dieci anni si sistemava tutto") e, dall’altra, l’appoggio elettorale e la realizzazione della "strategia dell’inabissamento" ("Perché se noi continuavamo a fare attentati... a spargere sempre violenza, a fare azioni eclatanti, i riflettori delle forze dell’ordine e dell’opinione pubblica era sempre a controllare, a guardare, a giudicare a noi e le persone che ci dovevano aiutare... Per cui era importantissimo, se non vitale, che Cosa nostra intraprendesse un periodo di quiete, di tranquillità, in modo che non destasse attenzione nell’opinione pubblica né alle forze dell’ordine e della magistratura in modo particolare": così racconta l’ultimo dei grandi collaboratori di giustizia, Nino Giuffrè).
Dell’Utri costruisce in pochi mesi il partito di Forza Italia che nel 1994 ottiene un clamoroso successo e porta Berlusconi per la prima volta al governo. Naturalmente i magistrati di Palermo non pretendono di spiegare con i rapporti siciliani tutto il successo di Forza Italia, che è spiegabile solamente con una complessa somma di concause politiche, economiche e sociali. Ma aggiungono a queste gli elementi emersi nelle indagini su Dell’Utri e i suoi rapporti con Cosa nostra. Concludendo che "Dell’Utri interviene come sa, secondo il suo stile, “alla grande”, senza mezzi termini, facendosi in prima persona protagonista e artefice di un progetto politico, quello che poi sfocerà nella nascita del movimento Forza Italia. Movimento rispetto al quale, intendiamo ribadirlo una volta per tutte (...), il pubblico ministero ha il massimo rispetto, così come ha il massimo rispetto nei confronti dei suoi militanti e dei suoi elettori. (...) La condotta e le finalità di Dell’Utri sono assai meno commendevoli di quelle degli altri fondatori del movimento politico; anzi, è provato che quelle di Dell’Utri furono direttamente condizionate da Cosa nostra, e dalla precipua finalità di agevolare la realizzazione degli interessi di Cosa nostra. Ed è per via di Dell’Utri soprattutto, e del ruolo da lui esercitato, che il movimento politico di Forza Italia fin dal suo sorgere costituì un punto di “interesse politico” per Cosa nostra: non certo perché Forza Italia fosse il partito della mafia, ma perché Forza Italia era il partito di Dell’Utri e quello a Cosa nostra bastava".
I rapporti con la mafia proseguono anche negli anni successivi. Nel 1999, per le elezioni europee, Cosa nostra fa circolare tra i suoi uomini l’ordine di sostenere e votare proprio Dell’Utri, che dev’essere aiutato anche in relazione ai guai giudiziari che gli sono piovuti addosso (nel 1997 è iniziato il processo palermitano per collusioni con la mafia). Nella nuova Cosa nostra di Provenzano, Dell’Utri gode di un’inedita autorevolezza: "Una straordinaria conferma", sostengono i magistrati di Palermo, "dell’attuale vigenza dei “patti” stipulati a suo tempo, fin dal 1994".
6.
La lunga requisitoria presentata in questo volume è la storia di un uomo, Marcello Dell’Utri, e della sua lunga attività di mediatore tra un imprenditore del Nord e Cosa nostra. Un incredibile romanzo, il plot di un grande film. A costruire questa storia non sono solo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, i tanto vituperati “pentiti”, vittime di una campagna di delegittimazione che dura ormai da più d’un decennio. No, nel processo – come ciascuno può leggere in queste pagine – sono confluiti dati oggettivi, documenti societari, rapporti di polizia, intercettazioni telefoniche e ambientali, racconti e contributi di semplici testimoni, perfino ammissioni degli imputati.
Finito il processo, però, si apre – o almeno dovrebbe aprirsi – la riflessione giornalistica, civile, morale, politica in senso alto. Ma in Italia questo non succede. Lo constata Barbara Spinelli, dopo la sentenza, in un suo commento (Il sonno morale) sulla prima pagina della Stampa di domenica 12 dicembre 2004: "Sia in caso d’assoluzione che di condanna, i processi italiani sono vissuti con atteggiamento politico piuttosto che morale, e si svolgono tutti in un’atmosfera rarefatta dove non hanno spazio né la coscienza né i principi, né il giusto né l’ingiusto". A parte i commenti dei politici (assolutori e antigiudici da destra, cauti e chissà perché quasi imbarazzati da sinistra), la società italiana non ha ritenuto di fare una riflessione libera, autonoma da ogni schieramento preconfezionato. Eppure, "non esistono solo la coscienza personale di Berlusconi e di Dell’Utri. Esiste anche", argomenta Spinelli, "la coscienza del Quarto Potere incarnato da stampa, radio e televisione, ed esiste la coscienza dei liberi adulti cittadini-elettori. Per costoro il dilemma non può essere semplicemente accantonato, a partire dal momento in cui la magistratura cessa d’occuparsi in esclusiva dei casi e li restituisce al pubblico spazio". Barbara Spinelli continua: "Una volta pronunciata la sentenza, anche se solo di primo grado, si può tornare a commentare e giudicare con criteri politici". E invece: "Non ci s’indigna, se i tribunali certificano la collusione tra mafia e politica, se denuncia i meandri di un’impresa che ha mescolato affari illeciti e politica".
Perché se è vero che il processo di Palermo ha avuto come imputato, accanto a Tanino Cinà, il solo Marcello Dell’Utri e che esclusivamente sue sono le responsabilità penali accertate nel dibattimento, un Paese civile non può sfuggire, fuori dal piano giudiziario, a questioni impronunciabili: che imprenditoria è mai cresciuta in Italia, nella ricerca di soluzioni “private” alle minacce della criminalità organizzata e nelle commistioni finanziarie con il denaro sporco? E che nuova élite politica si è mai consolidata, se deve far catenaccio con personaggi compromessi, senza riuscire a far valere alcuna autonomia di giudizio?
La vicenda penale riguarda Marcello Dell’Utri, ma quella morale e politica coinvolge direttamente il suo datore di lavoro: Silvio Berlusconi, "vittima consapevole". L’imprenditore poi diventato presidente del Consiglio mostra di sapere in che gioco è stato messo da Dell’Utri (lo provano oggettivamente le intercettazioni telefoniche). E perché si è rifiutato di rispondere alle domande dei pubblici ministeri, il 26 novembre 2003, perdendo così la possibilità di sgombrare il campo da tanti equivoci e misteri?
7.
Ecco, dunque, perché può essere utile pubblicare in volume questa requisitoria, questo lunghissimo e complesso documento giudiziario. Non certo per ossessione “giustizialista”. Anzi, per proporre semmai un uso non giudiziario anche delle carte giudiziarie. Non ci interessa, qui, la valutazione penale dei fatti raccontati, delle testimonianze presentate; non ci interessa, a rigore, neppure se la sentenza sia di condanna o d’assoluzione. Ci interessa, su tutt’altro piano che quello giudiziario – il piano della vita, della convivenza civile, dunque anche della politica – rendere disponibile a tutti i cittadini la conoscenza di fatti che comunque hanno a che fare, per la natura dei protagonisti, con la storia di questo Paese. Non per invocare sanzioni o pretendere condanne, ma per fare quello che è proprio del giornalismo: far conoscere vicende, raccontare personaggi, svelare retroscena.
Vicende, personaggi, retroscena che, in questo caso, segnano la storia del Paese, toccano il cuore della politica italiana, eppure – incredibilmente – non hanno mai avuto uno spazio adeguato sui giornali o nelle tv. Ecco dunque questo documento, pubblicato per rendere disponibile a tutti la conoscenza di vicende troppo poco o per niente raccontate dai media. La requisitoria di Nico Gozzo e Antonio Ingroia contiene una mole imponente di informazioni, frutto di anni e anni di ricerche, di centinaia di testimonianze e di documenti che sarebbe un delitto seppellire in un archivio polveroso, consegnandole all’oblio.
Certo, non è usuale che – in questo come in altri casi del recente passato – agli strumenti giornalistici si sostituiscano atti giudiziari. Non è normale. Ma, di fronte all’enormità della vicenda italiana, saltano anche i generi letterari per raccontarla. Il giornalismo, dopo aver pazientemente percorso la strada del resoconto e dell’inchiesta, della cronaca e del reportage, finisce per doversi avventurare in nuovi percorsi. In qualche caso il giornalismo cerca di realizzarsi nella fuga (ma solo apparente) della fiction, o della satira. In altri casi, all’opposto, si rifugia nell’iperrealismo dei documenti, ritraendosi per lasciar parlare le carte. Dopo tante ricerche, inchieste, reportage e campionari di storie e personaggi italiani, la soggettività cerca di sparire, quasi addolorata per la mostruosità dei propri risultati, e lascia il campo ai freddi fatti, ai nudi documenti.
Ecco dunque, strappato al buio degli scaffali palermitani asciugati dallo scirocco, questo materiale per una storia dei rapporti tra Milano e Palermo, tra gli affari e la criminalità, tra i poteri illegali e la politica. Nodi in gran parte non sciolti. Ed elementi non secondari, in un Paese che, più in generale, ha avuto per sette volte come presidente del Consiglio un uomo che, secondo una sentenza ormai definitiva, è stato, almeno fino al 1980, in rapporti con Cosa nostra. Milano-Palermo, Palermo-Roma. L’impresa e la politica e la criminalità. La storia non si scrive con le sentenze, si sente ripetere, ma chi vorrà scrivere la vera storia d’Italia dovrà pur rendere conto anche dei fatti emersi nelle aule di giustizia.
(Da Dossier Dell'Utri, Kaos edizioni, 2005)
Apologia di Cosa nostra
11 novembre 2007. In attesa della sentenza di secondo grado, Berlusconi difende Marcello Dell'Utri, già condannato in primo grado per mafia (ma Mangano fu condannato per mafia!)
La cronaca del Corriere della sera, 12 novembre 2007, dal convegno dei Circoli di Dell'Utri a Montecatini.
«Tutto a posto, è carico come una molla». Alberto Zangrillo, il medico personale del Cavaliere, ha appena finito di visitarlo. Dopo il malore dello scorso anno proprio qui a Montecatini, lo segue in tutte le manifestazioni pubbliche. Zangrillo lascia l' albergo e raggiunge il Palamadigan, dove il fondatore di Forza Italia terrà il discorso finale al convegno dei circoli del senatore Marcello Dell' Utri. E al «caro Marcello» dedica buona parte del suo intervento, tenendolo sottobraccio mentre parla dal palco. (...).
Ad ascoltarlo in prima fila si notano il gruppo dirigente di Forza Italia al gran completo e l' ex deputato ed ex ministro Cesare Previti, ora agli arresti domiciliari, a Montecatini per effetto di un permesso concesso dal magistrato. Berlusconi esordisce rivolgendosi a Dell' Utri: «Lo devo ringraziare per quello che ha fatto, che ha continuato a fare e continuerà a fare sapendo bene di esporsi ad attacchi feroci, di una ferocia giacobina, da chi usa impropriamente, e in modo assolutamente contrario a ciò che si deve fare, il potere che la carica di magistrato conferisce».
Quello del Cavaliere è un amarcord. Esalta il ruolo giocato da Dell' Utri, e si sofferma sui guai giudiziari nei quali è incappato il cofondatore di Forza italia e dei circoli, che, si sa, è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. «L' accusa - osserva - è di avere conosciuto delle persone. Dell' Utri, un bibliofilo eccezionale, membro dell' Opus Dei, è nato, ha studiato a Palermo». E a Palermo, lui che ha fondato una squadra di calcio - la Bacigalupo - «ha avuto modo di conoscere persone che dopo si è scoperto avere contiguità con quel cancro che è la mafia».
Evocata la mafia Berlusconi si dilunga su Vittorio Mangano, lo stalliere della villa San Martino ad Arcore, anche lui colluso con l' ambiente dei padrini, ma dice convinto il Cavaliere, «non fu mai condannato per mafia». Mangano, rivela Berlusconi, fu sottoposto alle pressioni più terribili affinché coinvolgesse me e Marcello». Lo stalliere, ricorda ancora l' ex premier, «portava a scuola i miei figli e ha sempre descritto quello di Arcore come il periodo più felice della sua vita». Non solo: «Non accettò mai di dire o inventarsi cose su me e Marcello». Questa notazione serve a Berlusconi per un' ulteriore critica alla magistratura. «Se non erro, il principio della pena in Italia è quello di recuperare alla società civile qualcuno che ha sbagliato ma in questa circostanza devono essere recuperati alla società questi giudici che lo accusano». (...) (Lorenzo Fuccaro)
In verità: Vittorio Mangano fu indicato al maxiprocesso di Palermo, sia da Tommaso Buscetta che da Totò Contorno, come uomo d' onore appartenente a Cosa Nostra, della famiglia di Pippo Calò, il capo della famiglia di Porta Nuova (della quale aveva fatto parte lo stesso Buscetta). Nel 2000, poco prima di morire per un cancro, fu condannato all' ergastolo per il duplice omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovambattista Romano, quest' ultimo vittima della «lupara bianca» nel gennaio del ' 95. È stato inoltre sospettato di aver rapito il principe Luigi D' Angerio dopo una cena nella villa di Berlusconi, nel dicembre del ' 74. Conosciuto come lo stalliere di Arcore attraverso le cronache giornalistiche degli iter processuali che lo hanno visto coinvolto, il boss - che fu assunto da Dell' Utri nella villa di Arcore nella quale visse tra il ' 73 e il ' 75 - passò gli ultimi giorni della sua vita in carcere, perché, si legge nella sua lapide nel cimitero di Palermo, «rifiutò di barattare la sua dignità con la libertà».
da societacivile.it
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