Ragion d'Essere

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mercoledì 30 giugno 2010

Facebook e l'idiota, di Antonio Vigilante

Immaginate un treno, diceva ieri pomeriggio un giornalista di Repubblica presentando un suo libro: ogni vagone è un mediocre; più vagoni ci sono, più la persona di talento è lontana dalla testa del treno. Mentre parlava, più che l’immagine del treno mi veniva in mente la home di Facebook.
A molti i social network, e segnatamente Facebook (per molti in Italia Twitter è ancora un oggetto misterioso), sembrano strumenti per comunicare, per comunicarsi - per lasciare traccia. A me sembra che la loro funzione sia un’altra: quella di stabilire un’intesa sul mondo, se non proprio di contribuire alla costruzione sociale della realtà. Più che di comunicazione vera e propria, Facebook è fatto di ammiccamenti, di strizzate d’occhio, di sorrisi e strette di mano - di condivisione. C’è un gruppo per tutto: per quelli che hanno voglia di abbracciare qualcuno ma non possono, per quelli che si addormentano leggendo, per quelli che amano la nebbia, per quelli che detestano questa o quella cosa. La vita è passata attentamente al setaccio, meticolosamente sezionata, ridotta ai suoi elementi primi, alle sue esperienze minime, e per ognuna di esse - per ogni atomo di esperienza sociale o individuale - c’è una approvazione o disapprovazione pubblica. In questo modo si (ri)costruisce una esperienza comune, si trova una dimensione media della vita collettiva. Media, ho detto: e non può essere altrimenti. Ciò che è eccezionale - sublime o devastante, doloroso o osceno - non ha posto. Il non mediocre su Facebook più che altrove è un idiota, uno che ha un idios kosmos, un mondo suo, non comunicabile né condivisibile. Ogni gruppo su Facebook è un vagone che allontana l’idiota dalla testa del treno, poiché egli sa, vive, soffre ogni giorno la verità della fondamentale incomunicabilità della vita in ciò che ha di più intenso, vero, profondo. Al di fuori, al margine, osserva con qualche sconcerto l’intrecciarsi febbrile delle condivisioni, la costruzione zelante dell’identità collettiva, il gioco morboso delle strette di mano e delle pacche sulle spalle, e tutto ciò gli sembra in qualche modo sinistro.
Ci sono tre cose.
C’è il silenzio. Il silenzio è una forma di igiene essenziale. Poche esperienze nella mia vita mi sono sembrate e mi sembrano più significative del sedere in meditazione insieme ad altre persone, in un monastero o altrove. C’è l’altro, c’è il proprio corpo, c’è la propria mente. C’è la vita, ed è una faccenda seria: intensa.
C’è poi il parlare, il discutere di cose, l’accalorarsi anche: il confronto aperto su questo o quel problema. Una cosa essenziale anch’essa. Che ci fa uomini, direi in modo un po’ solenne. E’ una cosa senza la quale non c’è quell’altra cosa che è la democrazia, la difficile costruzione comune di un mondo comune giusto e libero.
C’è infine il fanatico convenire, il parlare in coro, il pensiero ridotto a slogan, la lingua costretta nel motto; c’è la koinonia meccanica ed acritica, quietamente o furiosamente esaltata, che parlotta e chiacchiera ed urla, ma sempre al di qua della verità, sempre alla superficie delle cose. E’ qui che, dopo qualche nervosa oscillazione, finisce per fissarsi l’ago della comunicazione nelle reti sociali. Anche quando si parla di filosofia o di faccende spirituali, a prevalere è una molle disperante mediocrità, un’aria ammorbata dal pregiudizio e dalla conclusione affrettata, dalla cogitazione precoce, dal falso consenso. E’ il regno dello pseudo-Neruda mastelliano di Lentamente muore: una poesia mediocre che dice il sogno di ogni mediocre - sentirsi, almeno una volta nella vita, o solo con la fantasia, qualcosa di più che un mediocre. Una poesia-sogno che i mediocri condividono con uno zelo commovente. Ti vien quasi da aver speranza: con tutta questa gente che vuole rovesciare il tavolo, le cose cambieranno, pensi.
Ma è roba da mediocri, realizzi presto. Chiacchiera da social network.

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